Fatture soggettivamente inesistenti: IVA indetraibile e costi deducibili “se”
Con la sentenza n. 11661 di ieri, la Cassazione torna a ribadire due importanti principi riguardanti la detraibilità dell’IVA e la deducibilità dei costi in ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti, ovvero in quelle situazioni in cui pur risultando i beni e i servizi effettivamente scambiati o resi, uno o entrambi i soggetti del rapporto risultano falsi.
Per quanto concerne la detrazione dell’IVA assolta sulle fatture di acquisto da parte dell’acquirente dei beni o servizi la sentenza di ieri conferma che, in ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti, è precluso il diritto alla detrazione dell’imposta, poiché la falsa indicazione di uno dei soggetti del rapporto determina l’evasione del tributo relativo alla diversa operazione effettivamente realizzata tra altri soggetti.
Il cessionario/committente, tuttavia, secondo la giurisprudenza di legittimità e comunitaria, può essere ammesso a esercitare il diritto alla detrazione dell’IVA se dimostra, con onere a suo carico, di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra cedente e fatturante in ordine al bene ceduto, oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all’attività professionale svolta in occasione dell’operazione contestata, di non essere stato in grado di abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti collegati all’operazione.
La Suprema Corte ha più volte ribadito che, in caso di contestazione, il primo soggetto su cui grava l’onere probatorio è l’Amministrazione finanziaria, la quale è tenuta a fornire la prova, anche presuntiva, dell’asserita inesistenza soggettiva delle fatture contestate, ad esempio dimostrando l’inesistenza di strutture adeguate delle “cartiere” che hanno emesso i documenti (Cass. nn. 13806/2014 e 23560/2012). Solo dopo che il Fisco ha integrato questa prima prova, l’onere probatorio passa in capo al contribuente, che deve fornire la prova contraria, ovvero dimostrare che le operazioni contestate sono state realmente concluse con i soggetti indicati nelle fatture stesse, non potendo, però, a tal fine essere sufficiente la mera allegazione della prova dell’avvenuto pagamento o della consegna dei beni ovvero della regolarità formale della documentazione, poiché si tratta di circostanze – secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità – non concludenti (tra le altre, Cass. nn. 12802/2011 e 5912/2010) tanto più quando ciò avvenga a fronte di “elementi di forte spessore indiziario e presuntivo” di segno contrario forniti dal Fisco, come nel caso di specie, in cui era stato addotto dall’Amministrazione finanziaria che le pretese ditte fatturanti non avevano sedi operative e dipendenti, né avevano una regolare contabilità aziendale. Secondo la Cassazione, l’assenza di un’adeguata dotazione personale e strumentale delle asserite ditte fornitrici è di per sé elemento sintomatico dell’assenza di “buona fede” del contribuente, attesa l’immediatezza dei rapporti tra cessionario/committente e cedente/prestatore (Cass. nn. 6229 e 24426 del 2013).
Relativamente, invece, alla deducibilità dei costi afferenti alle fatture contestate, la Suprema Corte, con la pronuncia di ieri, ha confermato l’applicabilità della nuova disciplina dei costi da reato introdotta dall’art. 8 del DL 16/2012, che ha modificato l’ art. 14, comma 4-bis della L. 537/1993 in base alla quale non è più sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, del cessionario nella frode affinché sia contestabile la deducibilità dei costi, atteso che la nuova normativa richiede a tal fine che i costi si riferiscano a beni o servizi “direttamente utilizzati”